Pagine di gioventù: “Alla muntagnella!”

Per noi ragazzi di 12 anni, nati a metà degli anni ‘50, le lunghe giornate invernali, tra una discesa con la slitta ed una scivolata con le calosce, erano ormai un ricordo. Finita la scuola, nel 1966, ci era permesso di allontanarci, ma non troppo, anche fuori paese. Sui colli intorno, e più precisamente al “cullitto”, passavamo intere giornate a costruire la “muntagnella” che voleva dire: giocare a vivere in montagna. Impegnati a imitare le avventure dei Bonanza, di Ringo e degli altri film western, si individuavano le somiglianze e ci si affibbiava il nome così da diventare: chi “Orso”, chi Joe e quindi Adam, figli di Ben Cartwright, proprietari del ranch di Ponderosa. Ma tutti volevano essere Giuliano Gemma, vera e unica star del cinema Aurora, quello vecchio con le sedie di tavola cigolanti, dure come le pietre. E c’erano pure gli indiani: da Geronimo a Toro Seduto, ma anche Cocis con i loro stupendi cavalli pezzati, le tende a forma di cono rovesciato e l’immancabile penna di gallina sulla testa. Tant’è che quando si usciva dal cinema si correva a perdifiato “sotte a ju clumiente” battendosi la mano su una natica a far finta di spronare quei cavalli che non c’erano. Ognuno nel suo ruolo, ovviamente c’era anche il Capo, sperava di imbattersi, prima o poi o con un lupo, o catturare una vipera, o anche solo uno scoiattolo per mettersi in mostra.

Eravamo, in quell’occasione, un gruppo di cinque ragazzi e avevamo scelto, come luogo ideale dove costruire la nostra fattoria, un pezzo di terra dietro il “cullitto” verso Sant’Egidio in mezzo agli alberi, lontano e fuori dalla vista da Scanno. Giuseppe, alias Geronimo, suggerì che per entrare nella capanna, ricoperta opportunamente per bene da grossi rami di fogliame per nasconderla meglio, dovevamo creare una specie di botola dal tetto. L’idea ci parve da subito una grande trovata ma, come si vedrà, fu una grande cavolata, tanto da crearci dei grossi problemi molto rischiosi per tutti.

I giorni passavano tra mille escursioni, felici di muoverci liberamente, almeno fino a sera quando per forza di cose si doveva ritornare a casa, anticipando il rientro dei nostri padri dal lavoro. In proposito veniva ritenuto fortunato chi aveva il papà all’estero e ce ne erano tanti: numerosi in Germania ma anche nella lontanissima Venezuela, dove per andarci ci si impiegava più di un mese di nave. I tempi non erano dei migliori e da mangiare ce n’era ben poco. Le nostre battute di caccia non erano granché e, spesso, non producevano nulla, fatta eccezione per qualche lucertola alla quale tagliavamo la coda (tanto gli sarebbe ricresciuta) prima che se la svignasse lasciandoci con un palmo di naso. Le giornaliere scorribande agli alberi da frutta ci permettevano di procurarci qualche mela selvatica, delle rare ciliegie beccate dagli uccelli e qualche “cacchia” d’uva acerba strappata sotto la casetta nei pressi di San Martino. In mancanza d’altro, si faceva merenda con un’ampia varietà di erbe come i “seuze” o i “necciuole”, e, ben che ci andava, con delle rape dell’orso, dell’ uvula, o delle gustose fragoline selvatiche raccolte lungo il Carapale. Immancabile la sosta per bere alla pineta dove per lavarci utilizzavamo anche dei fiori rosa-lillà che facevano schiuma. Schiuma che, più di ogni cosa, ci sarebbe servita come l’acqua dal cielo, tipo temporale, quando è successo il fattaccio. Un giorno, infatti, per cucinare due salcicce, ci appollaiammo con le gambe incrociate tutti e cinque dentro la capanna ed accendemmo un bel fuoco.

Erano alcuni giorni che non tirava un filo di vento e faceva un caldo afoso che dalle nostre parti è da considerarsi una vera rarità. I rami e le foglie che coprivano la capanna si erano già seccati da tempo e bastò veramente poco che in un istante si accesero così improvvisamente, a mo’ di benzina, tanto da creare in noi il panico più totale, non sapendo come e da dove scappare. La botola era molto stretta, non si respirava più per il fumo acre, ci sentimmo quasi spacciati. L’unica alternativa fu quella di buttare giù le pareti, e dovevamo farlo in fretta, mentre il fumo e le fiamme all’imbrunire si vedevano perfino dalla piazza. Usciti fuori, tossendo a più non posso, cercammo di spegnere alla meglio l’incendio riuscendoci dopo un paio d’ore, con tantissima paura addosso. Era ormai quasi buio quando ci avviammo giù per la “straceneta” per tornare in paese. Ci tremavano ancora le gambe, ci rendemmo conto di aver rischiato grosso, di fatto abbiamo rischiato di incendiare tutto il bosco e, il dubbio che il fuoco potesse riprendere ad ardere durante la notte, non ci diede tregua nemmeno per un attimo; altro che Capi indiani ed eroi del West! E non finì qui poiché passammo l’intera nottata insonne con il muso spiaccicato sul vetro della finestra di casa a scrutare, non di certo il cielo stellato, ma unicamente l’allora brullo profilo del lontano “cullitto”.

Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione

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