Una sfida (im)possibile

Se ci avessero chiesto di scegliere, avremmo puntato, senza pensarci, sulla millecento nuova fiammante di nostro zio. Qualche giorno prima i nostri genitori, in accordo con alcuni parenti, ci avevano avvertito che saremmo stati accompagnati, o meglio ci avrebbero portato con loro, alla festa di San Domenico a Cocullo. Ad appena 5/6 anni uscire dal paese era per noi un evento eccezionale. Se poi vi aggiungiamo anche che avremmo visto da vicino e, forse toccato, le serpi vive avvolte e cadenti sulla statua del Santo, non poteva che farci sentire oltremodo euforici con una buona dose di apprensione e paura. Era il 1961, ai primi di maggio di domenica, e si partiva da Scanno con diverse corriere piene di gente e comitive, preventivamente munite di varie ceste colme di roba da mangiare, sistemate alla rinfusa sui tetti degli autobus come se si dovesse partire per l’ America…c’erano da percorrere appena 20 chilometri ed erano previste anche due soste per le colazioni, insomma ce la si prendeva comoda; tutto l’inverso di quanto sarebbe accaduto al ritorno.

La festa di per se, in tutta la sua originalità, era di quelle che non si dimenticano facilmente perlopiù se osservata con gli occhi di un bambino. Tra la folla non era facile districarsi e poi non c’era permesso di allontanarci, dovevamo rimanere ben attaccati. Inutile dire che a nessuno venne in mente di muoversi di un solo passo, visto che tutt’intorno non c’erano altro che serpenti che si dimenavano continuamente e strisciavano già nei pressi delle nostre gambe e i nostri piedi. La contentezza di essere lì fu presto sopraffatta dal timore di essere morsi dall’unico serpentello a cui non era stato aspirato il veleno. Toccò proprio a me prenderne uno che subito mi scivolò tra le mani, mentre un altro se ne stava tranquillamente posato sulla spalla di una ragazza che ne aveva altri avvinghiati al suo bianco collo.

La banda suonava indisturbata e la lunga processione ai primi botti stava per far rientro in chiesa. Finalmente, dopo il saluto ai fedeli e il lunghissimo spettacolo dei fuochi pirotecnici che, a detta degli organizzatori, dovevano per forza essere più potente degli altri paesi della valle, venne il momento tanto atteso di andare a mangiare. Sistemati presso un girone sulla strada che conduceva a Pescina, ci godemmo il pranzo e l’immancabile ricca porzione di fave e pecorino come da tradizione. In proposito tenne banco per un po’ la sparizione di una cassetta intera di fave, si venne a sapere dopo che uno degli autisti in un battibaleno se l’era pappata tutta. All’ennesimo bicchier di vino, scattò dunque l’inattesa proposta di sfida che consisteva nell’arrivare per primi a Scanno in una gara tra una corriera e un’automobile. Nemmeno a farlo a posta, subito si candidò mio zio, forte del fatto che la sua macchina era nuova di zecca, appena dopo si fece avanti l’autista più esperto che aveva avanzato la proposta, convintissimo che la vittoria sarebbe stata sicuramente dalla sua parte. Com’era possibile che un vecchio autobus potesse battere una scattante e potente Fiat millecento a benzina?

Mio zio, alla partenza, sicuro anch’egli di vincere facile, ebbe la malaugurata idea di cedere il passo. Ebbene il grosso mezzo gli si pose davanti occupando l’intera carreggiata, ma ce n’era ancora di strada da fare. Man mano che si saliva lungo le gole del Sagittario, i tentativi di sorpasso aumentavano a ogni curva e così anche il rischio d’incidente. Mio zio nello stesso tempo si affannava a cambiare marcia e a suonare il clacson in continuazione. Ci provò tantissime volte senza demordere, accelerando a più non posso. L’autista della Gualtieri invece, a passo lento, se ne stava placidamente al centro della strada. Si aspettava il momento giusto e qualche piccolo rettilineo per tentare ancora, forse quello appena dopo l’abitato di Villalago poteva essere il momento giusto. Nulla di fatto.

Ormai mancava poco, non rimaneva che l’ultima occasione dopo la curva di Buccini dove s’impennava la salita, ma qui la corriera, come un imponete transatlantico, sbuffò rumorosamente tirando fuori tanto di quel fumo nero da oscurare completamente la vista e, preso vantaggio, si assicurò così quell’improbabile sfida.

Nei giorni a seguire in paese non si parlò d’altro. Da ciò imparammo che, per mille altri motivi o anche solo per pochi, le cose più ovvie spesso non risultano tali.                 

Fonte: Raccolta “Pagine di gioventù” (1959 – 1979) di Pelino Quaglione

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